martedì 22 novembre 2011

Intensificazione con raltegravir, HIV RNA e immunoattivazione nel fluido cerebrospinale

Questo post è la continuazione di Il reservoir nel cervello: un ostacolo all'eradicazione?

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Esce sul numero del 15 dicembre del Journal of Infectious Diseases un lavoro congiunto del Karolinska Institutet svedese e della University of California, San Francisco, a firma di Viktor Dahl e Richard Price: Raltegravir Treatment Intensification Does Not Alter Cerebrospinal Fluid HIV-1 Infection or Immunoactivation in Subjects on Suppressive Therapy.
Anche se non vi si tratta specificamente del reservoir cerebrale e del modo per eradicarlo, ma solo dell’infezione attiva in persone con viremia soppressa dalla HAART, mi pare valga la pena parlarne qui, perché questo studio randomizzato costituisce un altro passo sia nella comprensione di quel che accade dell’infezione a livello cerebrale, sia nello smantellamento dell’idea che intensificare la HAART possa portare all’eradicazione o almeno a diminuire il livello di attivazione immunitaria.

Si sa che, anche se l’RNA virale viene soppresso dalla HAART nel sangue a livelli clinicamente non rilevabili, l’infezione e la connessa attivazione immunitaria possono persistere nel sistema nervoso centrale (CNS).

L’infezione del CNS in genere risponde bene alla HAART e infatti, quando i livelli di HIV RNA nel sangue diventano non rilevabili con i test standard (<50 copie/ml), lo stesso vale per lo più nel liquido cerebrospinale. Tuttavia, mentre la terapia combinata previene in larga misura la demenza HIV-correlata, dei deficit neurologici meno gravi rimangono abbastanza comuni fra le persone in terapia ed è possibile che il danno al sistema nervoso centrale continui nonostante la HAART. La patogenesi di questo danno cronico è ancora meno chiara della patogenesi della demenza HIV-correlata, ma si ritiene che lo stato di attivazione persistente vi abbia un ruolo rilevante.

Una spiegazione possibile di questa situazione è che nel cervello sia presente un “santuario” in cui la replicazione virale, nonostante non venga rilevata dai test normalmente in uso, continua a livelli bassi, ma sufficienti a causare attivazione immunitaria e quindi danno cerebrale.

L’ipotesi da cui sono partiti Dahl e Price è stata che, intensificando la terapia, sia possibile diminuire sia l’infezione sia l’attivazione immunitaria nel fluido cerebrospinale (CSF).

Per testare questa ipotesi ed eventualmente stabilire una via per trattare il problema, hanno fatto una sperimentazione clinica pilota, randomizzata 1:1, in aperto, aggiungendo l’inibitore dell’integrasi raltegravir (mai assunto in precedenza da nessuno dei partecipanti) a diversi regimi di HAART soppressiva e
1. andando poi a misurare nel fluido cerebrospinale la riduzione della neopterina, una sostanza prodotta dai macrofagi attivati che aumenta con l’aumentare dell’attivazione e che funge quindi da indicatore di attivazione della risposta  immunitaria.
2. Hanno inoltre misurato i livelli di HIV RNA nel CSF mediante “single-copy assay” (SCA): questo, per la sua precisione, è divenuto lo standard quando si studiano gli effetti dell’intensificazione, ma non era mai stato usato prima su campioni di fluido cerebrospinale.
3. Infine, hanno misurato i marker di attivazione sulla superficie dei CD4 e dei CD8, sia nel sangue sia nel CSF.


Riporto le caratteristiche dei pazienti e i risultati delle 12 settimane di sperimentazione mediante la sintesi esposta nelle tabelle e nelle figure. A seguire, la discussione.


Tabella 1: caratteristiche dei pazienti all’inizio della sperimentazione




Tabella 2: livelli di HIV RNA rilevati mediante “single-copy assay “ nel liquido cerebrospinale e nel sangue periferico dopo 12 settimane di intensificazione con raltegravir




Figura 1: cambiamenti dei livelli di neopterina e di altre variabili non virologiche nel liquido cerebrospinale




Figura 2: cambiamenti dei livelli dei marker di attivazione nei linfociti T del CSF e del sangue dopo intensificazione




Tabella 3: sintesi dei cambiamenti dopo 12 settimane di intensificazione



L’idea di Dahl e Price era che, intensificando la HAART con un antiretrovirale che ha un meccanismo di azione diverso rispetto agli altri – appunto un inibitore dell’integrasi – fosse possibile ridurre i marker di attivazione immunitaria e l’HIV RNA nel liquido cerebrospinale. Si auguravano che il raltegravir fosse in grado di inibire i bassi livelli di replicazione virale nel CSF, e dunque di ridurre l’attivazione immunitaria intracranica, in persone con viremia soppressa dalla HAART.
I risultati raccolti dopo 12 settimane di intensificazione hanno smentito questa ipotesi: nessuno dei valori misurati è migliorato. E questo è coerente con l’assenza di effetti sistemici sulla viremia plasmatica e sui marker di attivazione immunitaria nel sangue fatti in altri e più ampi studi (tranne il solito di Buzon del 2010, che però a questo punto sembra l’eccezione a una regola).
Anzi, gli unici cambiamenti che si sono constatati nell’attivazione dei linfociti T sono stati un LEGGERISSIMO AUMENTO NELL’ATTIVAZIONE, invece che una diminuzione, nel gruppo che ha ricevuto il raltegravir + la HAART.

Secondo Dahl e Price ci sono tre spiegazioni possibili:

1. Forse il raltegravir non inibisce in modo consistente l’infezione a livello cerebrale: tuttavia, benché non ci siano molte ricerche che documentino l’efficacia del raltegravir da solo nel sistema nervoso centrale, alcuni studi di farmacocinetica hanno mostrato che questo farmaco comunque arriva nel fluido cerebrospinale, anche se a livelli inferiori rispetto a quelli raggiunti nel sangue. È quindi possibile che il periodo di trattamento sia stato troppo breve.

2. Forse l’ipotesi di partenza è sbagliata: potrebbe esserci una replicazione virale minima e/o discontinua nel cervello e questa potrebbe non causare l’immunoattivazione persistente nel fluido cerebrospinale. Questa spiegazione si compone di due parti: a) la replicazione virale residua in corso nel sistema nervoso centrale e b) il meccanismo di immunoattivazione persistente nel cervello. Per la prima volta, in questo studio è stato utilizzato un test molto sensibile per valutare l’HIV RNA residuo nel fluido cerebrospinale in pazienti con viremia soppressa (SCA) e si è visto che, in effetti, anche prima dell’intensificazione i livelli di virus presenti nel liquido erano davvero minimi. Questo, unito all’assenza di ulteriore riduzione dopo l’intensificazione, suggerisce che ci fosse una replicazione virale attiva bassissima nel cervello. Bisogna però tener conto del fatto che il “single-copy assay” applicato al fluido cerebrospinale potrebbe non riuscire a rilevare un’infezione di basso livello nel cervello. Per capire da dove questa si origini nel caso di pazienti con viremia irrilevabile grazie alla HAART, bisogna prima capire le origini del virus trovato nel liquido cerebrospinale di questi pazienti: viene da replicazione residua nel sangue? Da CD4 memoria? Da cellule cerebrali, quali quelle della microglia o gli astrociti?

3. Forse la risposta che si è trovata non era quella alla domanda (ipotesi) fatta, a causa delle caratteristiche particolari dei pazienti arruolati nella sperimentazione: persone con viremia così ben soppressa, e dunque con infezione e immunoattivazione così basse a livello cerebrale, da rendere impossibile valutare eventuali effetti terapeutici dell’intensificazione della HAART.

Conclusione: “nonostante il raltegravir presenti caratteristiche favorevoli per trattare il sistema nervoso centrale, non abbiamo trovato nessuna prova che l’intensificazione abbia ridotto l’immunoattivazione intracranica o l’HIV-1 RNA nel liquido cerebrospinale dei soggetti del nostro studio. Questo è coerente non solo con studi precedenti sul CSF, ma anche con gli effetti sistemici dell’intensificazione della terapia. Un aspetto importante dei nostri risultati è stata la bassa quantità di RNA virale e i bassi livelli di neopterina trovati nel liquido cerebrospinale dei nostri pazienti. Questo ci spinge a ipotizzare che la terapia sia realmente efficace nel ridurre la carica virale nel cervello e l'attivazione immunitaria intracranica. Rimane da capire se questo avvenga comunemente o se i nostri pazienti abbiano costituito un gruppo con caratteristiche insolite”.

sabato 12 novembre 2011

NORCINI PALA: HAART self efficacy e compliance in HIV+

Ieri pomeriggio sono andata alla Bicocca ad ascoltare una lezione che Andrea Norcini Pala ha tenuto nell’ambito di un grande congresso di psicologia: la quinta edizione delle Giornate Nazionali di Psicologia Positiva - IL BENESSERE NEL QUOTIDIANO (http://www.psicologiapositiva.it/congressi_psicologia-positiva.htm). In una sessione intitolata Benessere e qualità  di vita in patologie gravi e croniche, Norcini Pala ha parlato di HAART self efficacy: favorire la compliance in pazienti sieropositivi, durante la quale ha raccontato della ricerca –cui HIVforum.info ha dato il suo contributo, grazie alle molte persone che hanno risposto al questionario messo online (cfr. QUESTIONARIO SU ASPETTI PSICOLOGICI E MALATTIA DA HIV) – sugli aspetti fisiologici che collegano depressione e malattia da HIV (si veda anche il thread Depressione, stress post-traumatico e infezione da HIV).
Due premesse:
1.       Nei mesi scorsi, Norcini Pala ha avuto l’opportunità di studiare/lavorare a Baltimora [... no, non da Bob alla Johns Hopkins, ma alla University of Mariland] dalla professoressa Lydia Temoshok, che è uno dei principali studiosi di marker immunitari e depressione e che studia l'HIV più o meno dagli esordi (qui trovate un paio di lavori recenti della Temoshok, che sono interessantissimi: Coping as a Multisystem Construct Associated With Pathways Mediating HIV-Relevant Immune Function and Disease Progression e Type C coping alexithymia and heart rate reactivity are associated independently and differentially with specific immune mechanisms linked to HIV progression). Ha la speranza di riuscire a invitarla a Milano e, se sì, ce lo farà sapere.
2.       Tutta la parte iniziale della relazione di ieri verte sui benefici e le difficoltà della HAART, sull’importanza di una perfetta aderenza per evitare la creazione di resistenze e il conseguente fallimento terapeutico, ma anche sui disturbi che l’assunzione degli antiretrovirali comporta, dall’ansia agli incubi vividi del Sustiva, dalla lipo ai disturbi gastrointestinali. Credo quindi che la si possa trascurare.
Passiamo al cuore della lezione: la questione della COMPLIANCE, cioè della buona aderenza al regime terapeutico. Questa dipende da quanto il paziente sente di avere un controllo sulla terapia (“self efficacy”), mediante i comportamenti che mette in atto. Il fatto di ritenere di non essere in grado di avere un controllo, per esempio, può portare a saltare la terapia durante i fine settimana.

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È stata creata una scala di “self efficacy”, relativa alla capacità di assumere correttamente la HAART e si è constatato che un alto grado di percezione della propria buona aderenza alla terapia ...
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Nell’ultimo anno, sono stati condotti tre studi su pazienti HIV+,  uno attraverso il questionario online (158 questionari perfettamente compilati) e uno attraverso interviste dal vivo condotte al Sant’Orsola di Bologna (110, con minor collaborazione rispetto ai questionari online).
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La HAART self efficacy predice bassi livelli di depressione e minor uso di sostanze, minori livelli di stress e migliore compliance.

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Il terzo studio ha comportato la valutazione dello stato di infiammazione connesso all’infezione da HIV, mediante la rilevazione dei livelli di alcune citochine infiammatorie (in particolare interleuchina 6 e tumor necrosis factor). Se ne è ricavato che la HAART self efficacy media la relazione fra stress e IL-6 (questa attiva degli enzimi che riducono la serotonina, così favorendo l’instaurarsi della depressione; inoltre, attivando i leucociti T, favorisce l’attivazione del virus latente).

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Quali le conclusioni tratte da Norcini Pala?
  • Che in ambito clinico gli interventi psicoeducativi per aumentare la HAART self efficacy possono possono comportare un beneficio clinicamente significativo per i pazienti;
  • che attraverso questi interventi è possibile favorire la compliance, e con ciò la riduzione sia dello stress sia della depressione;
  • che, per quanto siano necessari altri studi, si può tuttavia già ipotizzare che l’effetto della HAART self efficacy abbia una ricaduta positiva a livello fisiologico e quindi sulla progressione della malattia.


P.S. A breve dovrebbe uscire un articolo, in cui verranno pubblicati tutti i dati raccolti mediante i questionari.

Siliciano: perché l’efficacia dei farmaci antiretrovirali è variabile

Riprendo il thread [CROI 2010]Advances in ART: SILICIANO,  perché a fine ottobre Siliciano ha tenuto una lezione a Baltimora, nell’ambito del 13° incontro internazionale dell’Institute of Human Virology (IHV Meeting), durante la quale ha affrontato la questione se la HAART sia abbastanza potente per bloccare la replicazione del virus: Understanding How HAART Works.

Dall’articolo che ha pubblicato a luglio su Science Translational Medicine e dal titolo della relazione che terrà fra un mese a St Martin (Barriers to HIV eradication), credo si possa capire quanto le questioni di “farmacomatematica” lo stiano tenendo occupato e invece – purtroppo! – quante poche soddisfazioni gli stiano arrivando sul fronte dei farmaci antilatenza (sta sperimentando il disulfiram, è vero, ma temo che ci creda poco lui per primo).

Mi pare comunque utile riprendere il post che gli avevo dedicato lo scorso luglio e, a seguire, riportare la brevissima sintesi di Lafeuillade della lezione alla University of Maryland.


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È uscito proprio ieri [13 luglio 2011] su Science Translational Medicine il frutto di almeno tre anni di lavoro di Lin Shen, all'inizio specializzando, ora collaboratore di Siliciano. Purtroppo non riesco ad avere l’articolo, ma ne è uscita una recensione su Sciencenews e ve la sintetizzo, poiché quando parla Siliciano vale sempre la pena di starlo ad ascoltare e, in questo caso, insegna a guardare a una vecchia idea con occhi nuovi (che in genere è quello che fanno gli scienziati “rivoluzionari” e che, in termini tecnici, possiamo chiamare “slittamento di significato”).

Spiegata l’efficacia variabile dei cocktail di farmaci anti-HIV

Aumentare le dosi funziona nei momenti critici del ciclo virale del virus

Rachel Ehrenberg – mercoledì 13 luglio

Un nuovo modello matematico sul funzionamento dei farmaci contro l’HIV spiega in termini biologici le variazioni – ad oggi considerate sconcertanti - nel successo delle terapie. La ricerca, pubblicata il 13 luglio su Science Translational Medicine, potrebbe aiutare ad affinare le terapie contro l’HIV e altri virus, quali quello dell’epatite C.

Il nuovo modello spiega che aumentare leggermente la dose di alcuni farmaci anti-HIV ha un grande effetto nel caso in cui questi farmaci siano pensati per colpire obiettivi molteplici. “Scoprire che più proiettili possono colpire più obiettivi può sembrare scontato – dice Robert Siliciano – ma arrivarci ha richiesto un cambiamento nel modo di pensare a una vecchissima idea: quella della relazione fra la dose di un farmaco e il suo effetto”.

Per secoli, l’efficacia di un farmaco è stata rappresentata visivamente con quella che è chiamata la “curva dose-risposta”. Questa relazione sovente, quando è rappresentata in un grafico, prende una forma a “S” allungata. Ma nel 2008 Lin Shen, che allora era uno specializzando di Siliciano, capì che la ripidità dell’inclinazione della “S” – la sua pendenza – varia in funzione delle diverse classi di farmaci anti HIV: se sale gradualmente, significa che degli aumenti nella concentrazione del farmaco migliorano la risposta in modo graduale; invece, una pendenza molto ripida significa che piccoli aumenti nella concentrazione del farmaco potrebbero distruggere molte più molecole-target.




Siliciano spiega che è stupefacente il fatto che la ripidità di questa pendenza abbia qualcosa a che vedere con i farmaci contro l’HIV e che le differenze in ordine di grandezza siano davvero enormi (per esempio, aumentare il dosaggio dei più efficaci fra gli inibitori della proteasi può renderli miliardi di volte più potenti contro il virus, mentre aumentare la quantità di AZT potrebbe avere un effetto di sole 10 volte più grande rispetto a quello ottenuto con un dosaggio più basso).

Aumenti incrementali nella dose che producono un grande miglioramento nella risposta sono un fenomeno che di solito si verifica con farmaci che attaccano una molecola target in molteplici siti, e questo effetto è noto come “legame cooperativo” [dove la cooperazione dipende proprio dall’interazione che si crea fra i diversi siti]. Tuttavia, l’HIV ha un unico sito in cui il farmaco può attaccarsi, quindi dare di più di un farmaco non necessariamente lo rende più efficace.

Quel che hanno capito Siliciano e Shen, invece, è che IN CERTI MOMENTI DEL CICLO VITALE DELL’HIV, C’È COSÌ TANTO VIRUS O COSÌ TANTI APPARATI VIRALI DA ATTACCARE CHE I FARMACI CREANO UN LEGAME COOPERATIVO, MA PER COLPIRE MOLTISSIMI OBIETTIVI PIUTTOSTO CHE MOLTI SITI IN UN UNICO OBIETTIVO.

“Non era affatto scontato – dice Siliciano. Un conto è un pensiero lineare, che ti porta a vedere a quali concentrazioni di un farmaco ottieni il 50% di inibizione. Ma il virus si replica esponenzialmente: ogni cellula infetta rilascia abbastanza virus da infettare altre 10 cellule. Quindi dovevamo imparare a pensare in questi termini”.

Siliciano e Shen hanno testato il modello creando dei virus che offrissero un numero di target diverso rispetto al solito, per esempio virus che non producessero il solito numero di enzimi proteasi. Quando hanno infettato delle cellule renali con questi virus modificati e hanno calcolato le curve dose-risposta, le pendenze erano diverse rispetto a quelle dell’HIV non modificato: si è scoperto che se il virus alterato presentava al farmaco meno enzimi funzionanti da disabilitare, il virus veniva inibito a un dosaggio più basso.

Nell’abstract si precisa che questa INIBIZIONE COOPERATIVA viene spiegata da un modello in cui l’infettività richiede la partecipazione di molteplici copie del target del farmaco in un determinato stadio del ciclo vitale del virus. Coerentemente con le osservazioni sperimentali, questo modello fa delle predizioni per le diverse combinazioni di antiretrovirali, spiega la grande attività antivirale di due importanti classi di farmaci e definisce una caratteristica che rende i target dei farmaci dei “buoni” target: la cooperatività intermolecolare.


In un commento pubblicato sulla stessa rivista, Steven Deeks sostiene che i concetti esposti in questo nuovo modello aiuteranno a combattere l’HIV, ma anche altri virus, tipo l’HCV: “l’HIV è una macchina per replicare. Muta costantemente e il sistema immunitario fatica a controllarlo. Proprio perché il virus è così efficace nel fare quel che fa, non siamo mai riusciti a capire perché le combinazioni di farmaci abbiano funzionato per così tanto tempo. Ora che la matematica ci ha spiegato il segreto di questo successo dei farmaci, finalmente l’abbiamo capito”.



Fonte: 
- sciencenews.org
Abstract: 
- Siliciano - Lin Shen: A critical subset Model Provides a Conceptual Basis for the High Antiviral Activity of Major HIV Drugs
- Perelson - Deeks: Drug Effectiveness Explained: The Mathematics of Antiviral Agents for HIV

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Ed ecco la relazioncina di Lafeuillade, cui seguirà l'abstract di Siliciano:

Nella sua lezione, Siliciano ha affrontato la domanda se la HAART sia abbastanza potente da bloccare completamente la replicazione dell’HIV ed ha risposto utilizzando la “farmacomatematica”. Ha ricordato il lavoro di Shen – uscito nel 2008 – sulla pendenza della curva dose-risposta che, dopo che è stata trasformata in una funzione logaritmica, fornisce un parametro ideale.
Siliciano ha sostenuto che questo parametro è direttamente legato a QUANTE NUOVE CELLULE INFETTE SI CREANO IN UNA GENERAZIONE DEL VIRUS. Questo è in relazione con la viremia e dimostra che - IN MEDIA – SERVE UNA POTENZA DI RIDUZIONE DI 6 LOG PER BLOCCARE LA REPLICAZIONE DELL’HIV.
Siliciano ha utilizzato questo parametro per calcolare la potenza di ogni ARV oggi disponibile. Per alcuni antiretrovirali si è visto che la curva di risposta era lineare, per altri no. Gli inibitori della proteasi hanno mostrato il più alto potenziale inibitorio a delle dosi cliniche. Ciò significa che, aumentando il dosaggio, la curva aumentava nettamente.
Questo non si è visto con gli NRTI o con il Raltegravir. L’IP più efficace si è dimostrato il Darunavir/r, con una riduzione di 8-10 log.
Siliciano ha poi affrontato la questione della misurazione degli effetti combinati dei farmaci e, grazie al suo modello, è stato in grado di valutare la potenza di più di 800 combinazioni possibili con tre farmaci. Alcune di queste, grazie a un effetto sinergico, hanno mostrato una riduzione fino a 12 log.
TUTTAVIA, SILICIANO HA CONCLUSO CHE, A SUO PARERE, ANCHE LA PIÙ POTENTE DI QUESTE COMBINAZIONI NON RIESCE AD INFLUENZARE IL RESERVOIR PROVIRALE.


Understanding How HAART Works

Highly active antiretroviral therapy (HAART) can reduce viremia to below the limit of detection of current clinical assays (50 copies of HIV RNA/ml plasma), but viral reservoirs and low level residual viremia persist. Recent studies of HAART intensification show that the residual viremia is not due to ongoing replication, but rather release from stable reservoirs. Pharmacodynamic studies of antiretroviral drugs have shown that some classes of drugs have steep dose response curves, reflecting a unique form of intermolecular cooperativity that allows for up to 10 logs of inhibition of a single round of replication by some of the best drugs. The development of methods for calculating the combined inhibitory potential of drug combinations has allowed for the first time a direct comparison of the antiviral activity of different drug regimens and the definition of a minimum threshold for effective HAART. This quantitative approach to understanding HAART may be useful in the choice of HAART regimens for patients with wild type and resistant virus.



Domandina mia: basta con le speranze di intensificazione della HAART in funzione eradicante?